Negli scorsi giorni, abbiamo ospitato Wade Rathke, fondatore e leader storico di ACORN, la principale rete di organizzazioni di comunità degli Stati Uniti.
Da New Orleans a Taranto, per contribuire alla nostra ricerca su nuove pratiche e nuovi modelli organizzativi per produrre cambiamento sociale, coinvolgere i giovani pugliesi inattivi, mettere in campo progetti sostenibili nel tempo. Il community organizing è una tradizione di attivismo civico – nata in America negli anni ’30 del secolo scorso – che prevede l’attivazione diretta dei membri di una comunità e la centralità del territorio come campo di azione.
Più o meno funziona così.
Prendi delle persone (gli abitanti di un quartiere di periferia, un gruppo di cittadini a basso reddito, ecc.) con un problema sociale, ambientale od economico condiviso. Un “organizer” (un professionista a metà tra un attivista sociale, un agente di sviluppo locale e un sindacalista) prova a metterle insieme cercando di incontrarne il più possibile faccia a faccia, organizza incontri, individua leader locali, cercaalleati, struttura una campagna con un obiettivo definito, da raggiungere in un tempo dato.
Non si tratta di un meccanismo di delega. L’organizzatore è come un meccanico che lavora sul motore della macchina: la comunità. Sono i membri della comunità ad avere il compito di guidare la macchina. Il meccanico sistema le varie parti del motore per fare in modo che la macchina funzioni.
L’obiettivo del community organizing, in altre parole, è creare potere al livello delle comunità locali, affrontando un problema abitativo o educativo o sanitario, con lo scopo di portare a casa il risultato. Per il bene di tutti e di ciascuno. Una specie di “sindacato di territorio”, per dirlo con una categoria italiana.
Fin qui tutto ok.
Quindi, in cosa il community organizing è diverso dall’attivismo civico per come lo conosciamo?
La differenza sta nel fatto che i cittadini non sono esclusivamente destinatari di una campagna o partecipanti a un’azione di protesta.
Tutti, se vogliono, possono diventare membri di una nuova organizzazione di comunità creata intorno all’obiettivo comune. Tutti possono contribuire all’elaborazione della strategia e alla definizione delle azioni per attuarla. Attraverso la membership all’organizzazione di comunità, ciascuno può votare sulle decisioni da intraprendere. Le decisioni si prendono per maggioranza.
Tutto qui? No.
La differenza principale, a nostro avviso, risiede nella domanda: da dove provengono le risorse per sostenere i costi dell’operazione(il lavoro dell’organizer in primis, ma anche la comunicazione, la logistica,ecc.)?
Nella tradizione italiana del lavoro sociale la questione delle risorse economiche è risolta così, a cascata: un’istituzione eroga dellerisorse ad una organizzazione che realizza dei servizi indirizzati ad un targetdi utenti. Per esempio, un Comune affida un budget ad una cooperativa socialeper gestire uno sportello per i giovani.
Nella pratica del community organizing, invece, le risorse vengono dal basso.
Per partecipare all’organizzazione di comunità e avere diritto di voto sulle scelte, ogni membro (di solito ogni famiglia) versa unpiccolo contributo mensile. Più membri l’organizzazione conta, più la campagna sarà sostenibile ed in grado di investire risorse nell’azione diretta. Da destinatari/utenti, i cittadini diventano portatori dirisorse e “proprietari” della campagna.
La questione del pagamento delle quote, nella nostra cultura, genera perplessità: pagare per partecipare è una concezione distante dalla nostra tradizione civica, sociale e politica.
In realtà, Wade ci ha raccontato (e 80 anni di esperienze portate avanti in contesti geografici e culturali molto diversi tra loro lo dimostrano) che il community organizing può funzionare, con diverse declinazioni, sia nei quartieri poveri delle grandi città statunitensi che nei villaggi del Centroamerica.
In altre parole, anche in contesti di deprivazione economica e sociale, l’adesione anche economica ad una causa non è una barriera all’accesso insormontabile.
Il punto è costruire fiducia tra le persone e dimostrare che un cambiamento è possibile, ponendosi obiettivi praticabili e creando ipresupposti per non deludere le aspettative della comunità coinvolta.
Wade, sul suo blog, racconta così le questioni sul metodo avanzate nel dibattito: “As always, dues was a surprise, but they had their minds wide open, not only because they wanted to create social change and power, but they also want to get paid in this area of huge unemployment. They pushed back, but they wanted to believe, andthat’s more than enough to work with in planting the seeds of passion fororganizers”.
Ecco perché il modello del community organizing interessa alla Scuola di Bollenti Spiriti: l’obiettivo di formare animatori di comunità capaci di costruire occasioni di apprendimento in situazione e approccio al lavoro peri giovani non può prescindere dalla questione della professionalizzazione e del reddito.
È possibile affiancare a forme “tradizionali” di attivazione dei giovani (come la mobilitazione politica o la cittadinanza attiva) nuovi modelli organizzativi basati sulla costruzione di una base di membri in grado di prendere potere, assumere decisioni, impegnarsi in azioni dirette, stringere alleanze e contribuire ai costi della partecipazione?
È possibile immaginare nuove forme di impresa sociale che non considerino i giovani utenti di un servizio, ma portatori di risorse, uniti da una causa comune e capaci di costruire percorsi di attivazione, apprendimento e approccio al lavoro?
P.S. Grazie a Giusy Pappalardo, ricercatrice dell’Università di Catania e membro del comitato ViviSimeto in Sicilia, per la traduzione durante il workshop e l’interpretazione di molti concetti del community organizing in chiave mediterranea.
Per approfondire le origini e la storia del community organizing, qui ci sono le principali informazioni.
http://en.wikipedia.org/wiki/Community_organizing
http://en.wikipedia.org/wiki/Community_organization
http://archive.changemakers.com/media/docs/0133_Community_Organizing.pdf
http://www.sviluppolocale.org/?p=161
http://chieforganizer.org/wp-content/uploads/2012/02/ChapterWithPix.pdf